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Gli altrove dell'animo umano

A cosa serva l’arte è una questione intrigante al pari di cosa muova il gesto che la produce, una questione che contiene un inesauribile che non è facilmente liquidabile all’interno del presente contributo. Tuttavia, un passaggio da questo impossibile e irriducibile tema, può aiutare alla disposizione psicologica specificatamente verso le opere che sono qui presentate, e forse accedere anche a qualche pensiero ulteriore in merito al contesto nel quale esse sono state raccolte. Hans Prinzhorn, autore di grande importanza rispetto all’espressività artistica nelle persone ascrivibili all’universo della follia (per riferirmi alla malattia mentale mi appoggerò di tanto in tanto a questo termine antico e generico usato per la traduzione italiana della sua opera), non si occupò solo di pubblicare nel 1922 il celebre testo L’attività plastica dei malati mentali (Bildnerei der Geisteskranken) ma di costituire anche una raccolta di opere all’interno della clinica psichiatrica di Heidelberg presso la quale lavorava come medico, segnando una svolta nell’accostarsi a tali produzioni che rimarrà come riferimento per chiunque di questi temi voglia trattare. Una scelta, quella operata da Prinzhorn, orientata a dare valore alle opere dei pazienti, espressioni tutte dell’”onnipresente fluido alla maniera di Eros” quale sarebbe l’umano “bisogno di espressione” (Prinzhorn, 2011, p. 31). Via via, nel tempo, altri luoghi di ricovero hanno valorizzato tale tipo di attività così come hanno favorito la cura e la raccolta delle opere ivi prodotte. Mi piace qui ricordare, tra le cliniche psichiatriche attive su questo fronte, quella di Reggio Emilia, con il suo ospedale
a villaggio che ha ispirato proprio la costruzione dell’allora Manicomio cantonale di Casvegno, rispetto alla quale, nel 2005, è stato pubblicato un bel catalogo delle produzioni dei pazienti da lì transitati dal titolo Le mura di carta (2005). Il Frenocomio di San Lazzaro a Reggio Emilia e la Clinica psichiatrica di Mendrisio sono due luoghi che forse, favoriti da premesse condivise (e all’epoca a loro modo innovative), hanno dato spazio alle produzioni artistiche all’interno delle loro attività, probabilmente consapevoli che “a un certo punto della loro malattia alcuni pazienti psicotici cominciano a dedicarsi ad attività creative” (Kris, 1988, p. 82) non ascrivibili al registro dell’occasionalità quanto piuttosto a quello della regolarità e della pervasività, la quale si estende alle modalità attuate per cui “qualsiasi pezzo di carta, le pareti o il pavimento vengono usati per disegnarci sopra.” (Kris, 1988, p. 83). 

In passato, gli intenti di promozione di laboratori espressivi erano differenti da quanto oggi viene sviluppato, precedentemente legati ancora ad intenzioni cliniche e di contenimento (Ranchetti, 2005, p. 14). Di fatto, tale promozione e so-
stegno, hanno permesso un progressivo sviluppo verso sensibilità di approccio diverse al lavoro creativo dei ricoverati, influenzate anche dall’attenzione che via via cresceva attorno a tali produzioni. È quello che si legge e che si riscontra nelle biografie di molti autori già conosciuti e pubblicati nell’ambito dell’Art Brut la quale nasce nel percorso di persone che hanno incontrato la malattia mentale, persone che hanno attraversato condizioni di disagio profondo che di altrove parla, e alcuni tra loro hanno vissuto una parte della loro vita passando attraverso l’esperienza del ricovero. È il caso di Carlo Zinelli (1916-1974), diagnosticato come schizofrenico, internato nell’ospedale psichiatrico di Verona, la cui attività di incisione di graffiti sui muri viene osservata da un curante che lo inserirà in un apposito laboratorio. L’intento era quello di consentire al meglio l’espressione delle sue potenzialità.
Qui Carlo si ingaggerà a realizzare, a ritmi serrati, un migliaio di opere (Lombardi & Zanzi, 2024). La medesima dinamica la si riscontra nella biografia di Gaston Dufour (1920–1966), ricoverato a Saint-André-lez-Lille, anche lui notato da un medico, proprio come Carlo Zinelli, il quale coglie il medesimo orientamento all’attività artistica che si realizza ovunque fosse possibile, nel suo caso vengono sfrut-tati e utilizzati i margini dei giornali celati poi tra le pieghe delle fodere dei suoi abiti (Lombardi & Zanzi, 2024). Gli sono state quindi messe a disposizione matite colo-rate e fogli in modo da poter compiere pienamente la sua spinta creativa.
Ed ancora, il gesto dell’offrire il materiale necessario per incoraggiare la produzione artistica (in questo caso pastelli), emerge nel corso del ricovero di Sylvain Fusco (1903–1940). Quest’uomo cessa di parlare nel 1930, anno del suo ingresso in ospedale psichiatrico; dopo cinque anni comincia anche lui, come Carlo Zinelli,a fare graffiti sui muri finché arrivano, da parte di un medico, i fogli e il materiale adatto per disegnare (Lombardi & Zanzi, 2024). Quella di essere notati e aiutati
da qualche curante sensibile e attento è dunque un’esperienza ricorrente nelle biografie di molte persone ricoverate in ambito psichiatrico, storie di attenzione
e sostegno alla produzione artistica che richiamano, a volte anticipano e poi certa-mente e sempre più svilupperanno, quanto avvenuto anche presso il San Lazzaro prima, e il nosocomio di Mendrisio poi.

Un clima operoso e sereno era qualcosa su cui l’ospedale di Reggio Emilia investiva al pari di quello ticinese, tanto da venir rilevato ed apprezzato fin dalla
visita esplorativa del 5 ottobre del 1876 svolta dalla delegazione incaricata dal Consiglio di Stato del Canton Ticino composta dal dott. Beroldingen, dai proff. Fraschina e Cremonini e dall’avv. Borella, con lo scopo, segnala la Gazzetta del
San Lazzaro (1897), di “prendere norma sul luogo” (pag. 49) per trarre ispirazione per l’edificazione di un “Manicomio cantonale a Mendrisio”. Si apprende che la delegazione ticinese, dopo lo “spettacolo dei malati lavoranti liberamente negli orti e nei campi vicini” e la visita “dell’ampia cantina, della panetteria e del guardaroba”, beneficiò dei “suoni e canti dei malati” e della “più schietta cordialità”, esperienze che suscitarono “interesse, sorpresa e utili ammaestramenti.” (p. 49). La “gratissima memoria” di quella visita, ha lasciato una traccia in come è stato pensato e progettato quello che oggi chiamiamo, con piglio urbanistico, Quartiere di Casvegno. Ma forse è rimasto qualcosa di più.

Nel tempo, al pari dei medici del San Lazzaro di Reggio o del San Giacomo alla Tomba di Verona piuttosto che della Clinique de psychiatrie de Lille, giusto per citare i luoghi di ricovero degli artisti che poc’anzi ho voluto ricordare, anche
a Mendrisio si sono distinti psichiatri sensibili alla creatività dei pazienti internati.
Si pensi alla figura del dr. Olindo Bernasconi, medico aggiunto molto attivo a Casvegno fino al 1941, anno della sua precoce scomparsa a soli 48 anni, che seguì e incoraggiò la produzione di uno dei maggiori pittori del panorama svizzero del Novecento quale fu Jean Corty (Agliati Ruggia et al., 2020). Tutto ciò va a sostegno del fatto che tra i luoghi (nel nostro caso Reggio Emilia e Mendrisio) ci sono legami, a volte invisibili, e che nei luoghi che intrattengono contatti e scam-bi si sviluppano, pur a distanza e in tempi diversi, esperienze parallele e convergenti. Parlare di luoghi per un catalogo di opere potrebbe sembrare fuorviante, eppure questo è un catalogo che racconta in controluce di spazi fisici, da un lato, culla e custodia delle opere presentate, ma anche di spazi psichici, se così si può dire, ovvero contesti di attenzione e cura dell’espressività artistica di chi, in quegli spazi risiedeva. 

Riprendendo da queste considerazioni il discorso sulla produzione artistica alla luce del contesto, dei luoghi all’interno dei quali se ne osserva lo sviluppo, a acolare, sulla sua origine e sul suo significato negli ambiti di cura e accoglienza della sofferenza psichica. Ci aiuta ancora Hans Prinzhorn (1991) grazie ad un’immagine evocativa: quella delle infiltrazioni d’acqua che si manifestano in modo apparentemente disordinato e vario, che vengono alla luce da diverse direzioni, emergendo e scorrendo, e si orientano, raggiungendolo, al fiume che infine le accoglierà. Le infiltrazioni della metafora erano accostate dall’autore agli impulsi espressivi nell’uomo i quali, anch’essi al pari loro, finiscono per convergere verso il grande fiume dell’arte (Prinzhorn, 1991), un po’ come le opere e le produzioni che si sviluppano nei disparati luoghi e tempi dell’umano, tra i quali comprendiamo quelli di sofferenza e di cura, produzioni che si manifestano e via via confluiscono, a loro modo, verso il medesimo grande fiume. Sapere dove inizi l’arte non è dunque dato, forse è plausibile che essa non abbia un punto d’origine certo, ma solo “vaste zone originarie che, tutto sommato, pervadono ogni vitalità” (Prinzhorn, 1991, p. 34), esattamente come le infiltrazioni d’acqua della metafora evocata dallo psichiatra di Heidelberg. E se sull’origine è sempre difficile volgere lo sguardo, è tuttavia possibile valorizzare quanto, da questo insondabile punto di partenza, ha raggiunto oramai l’ampio corso d’acqua dell’arte. Tale percorso, nel contesto di Casvegno, lo hanno fatto le produzioni qui presentate che rimarcano come ci sia una “vitalità” nei luoghi di cura (e in passato pure di internamento), una vitalità che acquista forma e che ci parla delle misteriose zone originarie evocate da Prinzhorn dalle quali quei rivoli hanno preso partenza e sviluppo, proprio come le infiltrazioni d’acqua attratte dal grande fiume. 

Dissertare delle opere dei pazienti e, più in generale, di persone con un trascorso di sofferenza psichica importante, è sempre rischioso: non il parlarne in sé, quanto piuttosto le derive di tale parlare che possono frequentare due estremi, entrambi da monitorare con attenzione. Il primo è quello di prescindere dal con-
testo di sofferenza di chi le ha compiute, ignorando o non considerando che l’autore di quelle opere abita (o abitava) i territori del disagio psichico. Il secondo rischio
è quello, invece, di far convergere ogni lettura e ogni possibile sguardo sulla produ-
zione artistica del tal autore, sul fatto che ciò che si ha di fronte è frutto di soggetti con un vissuto di disagio psichico e, quindi, interpretabile esclusivamente in funzione di tale condizione, lanciandosi in pericolosi e a volte funambolici tentativi di spiegare l’opera con la malattia o leggere l’opera all’esclusiva luce del disagio psichico di chi l’ha prodotta. Dunque, vale il suggerimento di sospensione dell’inter-
pretazione clinica e l’invito a godere dell’incontro con quanto presentato, vale anche il monito di fermare, almeno per un po’, il ricorso a categorie principalmente estetiche così come “la connessione tra segni e sintomi, traumi e tipi di figure”. (Ranchetti, 2025, p. 9).

Arte e follia hanno un percorso antico che si intreccia e che regolarmente marca punti di contatto tra le due. Più attuale è l’attenzione alla produzione artistica negli ambiti psichiatrici, lo abbiamo visto con Prinzhorn e, prima di lui,
con Lombroso e il suo meticoloso raccogliere opere e manufatti da vari ospedali d’Europa, ma è innegabile che ci sia un’antica familiarità tra le due dimensioni.
Non è infatti cosa recente associare l’origine della creatività a quella della follia
o fare inferenze e considerazioni sul loro legame; e se a questo proposito ci si ricorda di Cesare Lombroso (Genio e follia è un caposaldo della questione), è solo perché egli, per vari motivi, ha maggiormente segnato l’immaginario collettivo.
Ma l’intuizione che ci sia un punto di contatto tra le due la si deve al raffinato filo-
sofo del Quattrocento che risponde al nome di Marsilio Ficino per il quale, chi dovesse nascere sotto il segno di Saturno, pianeta dai sinistri influssi, porterebbe con sé (meglio sarebbe dire dentro di sé) la malattia mentale (nello specifico
la melanconia) oppure la genialità. Di fatto, artista e folle, mi si perdoni l’insistenza nell’uso di questo vocabolo arcaico, sembrano possedere il contatto, o l’accesso,
ad un altrove precluso ai più, d’altro canto “l’alterità degli artisti è un dato largamen-
te acquisito” (Rudolf Wittkower & Margot Wittkower, 2016, p.3), un altrove capace di separare chi lo frequenta dal resto dell’umanità, oppure di farlo tornare con
la ricchezza creativa che segnerà, nella personale produzione artistica, un dono
per tutti coloro che quell’altrove non l’hanno frequentato o non vi hanno accesso.
Ed è in tale dimensione che cogliamo come, nella terminologia popolare, per def-
inire il malato mentale, si faccia riferimento allo spazio e alla posizione del soggetto rispetto ad esso, servendosi proprio dell’immagine del dislocamento. Un approccio spesso applicato anche nei confronti dell’artista e del genio: tutti accomunati
dalla collocazione in un oltre, non “com-presi” all’interno della spazialità “con-divisa” dal resto delle persone. Lo “spostato” ad esempio, uso gergale per persona
con problemi psichici, manifesta bene questo concetto. Ma come dimenticare “l’essere fuori” a cui segue “di testa” o “come un balcone”, che danno ancora
il senso di una collocazione di altrove da dove dovrebbe situarsi un soggetto
(“la testa”) o disallineata in rapporto ad una continuità (il “balcone” rispetto
alla continuità della parete dell’edificio). E poi ci sono i termini “eccentrico” (fuori dal centro), oppure le espressioni “smarrito” e “disorientato” con le quali si vuole evidenziare la difficoltà del soggetto nell’orientarsi nella spazialità (e nella temporalità) condivisa e ordinaria. Si conferma l’idea di un non sapersi porre, di un non trovare un posto “giusto” per sé nel mondo. C’è del vero in tutto ciò. Del vero e, spesso, tanta sofferenza. Termine chiave della follia, d’altro canto, è proprio la parola “delirio”, letteralmente una uscita (de) dell’aratro dal solco (lira). Per Max Simon, psichiatra francese di fine Ottocento, il disegno diventerebbe perfino l’“espressione figurata del delirio” (Bedoni & Tosatti, 2000, p. 28): ancora una volta (e ancora
di più) l’accento cade sull’aspetto deviante ed estraniante di queste condizioni dell’umano le quali finiscono per coinvolgere ogni dimensione della persona
e, dunque, anche la sua produzione artistica. La “rottura biografica” (Bury, 1982)
che la malattia – o qualunque condizione patologica – provoca, ha come corrispettivo lo spostamento (simbolico e spesso reale tramite ricoveri e collocamenti) in
un altrove, “una discontinuità nella traiettoria biografica che […] getta in un mondo alieno e ostile” (Cardano, 2007, p. 12). Rendono bene dunque le espressioni popolari citate prima, di spaesamento, spostamento, deviazione da territori familiari - quelli della salute - precedenti tale rottura, una deviazione che diventa “perdita, insieme, della mappa e della destinazione riferite al territorio che, prima della malat-
tia, ci si era prefigurati di attraversare.” (Cardano, 2007, p. 12).

Negli altrove da lui abitati, il soggetto, quando può, quando riesce, a volte quando gliene si dà autorizzazione e possibilità, a seconda delle proprie capacità
e degli strumenti a disposizione, restituisce e riporta ciò che vi ha visto e vissuto. Questo può avvenire proprio col tramite del gesto artistico, con le forme che l’arte dispone per riferire di esperienze e vissuti che il comune comunicare non sempre
è efficace a rendere. In tal modo “la creazione artistica diventa un mezzo di espressione eguale, o leggermente superiore, alla parole e alla scrittura” (Kris, 1988, p. 83), con una probabile differenza, evocata e fatta oggetto di argomentazione dallo storico dell’arte e psicoanalista Ernst Kris (1988) per il quale l’artista, a differenza del folle “sopraffatto dal processo primario” (p. 54), compirebbe una regressione consapevole, ricercata nel momento in cui crea. Lo farebbe, però, mantenendo
una libertà e una possibilità di movimento dagli altrove frequentati all’interno dell’atto creativo, cosa meno scontata e non sempre possibile per la persona psicotica o, per allargare il tema, per il soggetto che abita gli altri mondi del disturbo mentale. In questo senso rende bene la questione l’esempio efficace di cui si serve lo psicoanalista nelle sue Ricerche psicoanalitiche sull’arte degli inizi degli anni Cinquanta, che riferisce come il pittore, immerso nella sua opera mentre la esegue, può sempre prendere le distanze da essa indietreggiando di qualche passo, uscendo dall’altrove creativo, per guardare la tela da una prospettiva differente, più distaccata, riconquistando lo spazio-tempo della quotidianità. Una presa di distanza dall’altrove dal quale si attinge e si alimenta la creatività non scontata,
né sempre possibile, per la persona malata (Kris, 1988).

Da questa immagine di oltre frequentati dall’artista e dal folle (ma potremmo dire in modo più attuale da chi ha vissuti di sofferenza psichica), altrove dai quali viene portato e offerto materiale difficilmente e non immediatamente accessibile ai più, sta il punto della questione sulla quale vorrei accompagnare coloro che accosteranno le opere custodite e svelate dal presente catalogo. Ma occorre fare ancora un passo, un pensiero di congiunzione, un tratto che consenta di coglierela ricchezza che risiede nell’opportunità di confronto tra il pubblico e le presenti produzioni. E allora torniamo alla domanda, tutt’ora sospesa, con la quale si è aperto il discorso: “…a cosa serve l’arte?”. Si potrebbe, a tal scopo, prendere a prestito
il quesito che si pose un Tolstoj (1897) in età avanzata su cosa fosse l’arte al quale, nell’ultima decade dell’Ottocento, egli rispose nientemeno che con un libro che porta nel titolo la questione. Lo faccio nella speranza che nel cercare una definizione del cosa sia si sveli il per cosa serva l’arte, ovvero la sua utilità. Il discorso di Tolstoj scivola dal registro estetico a quello etico. Il grande vecchio della letteratura russa suggerisce: arte come mezzo, come tramite, declinando poi in modo personale e originale la cosa. È questo l’appiglio al quale trovo appoggio per il mio discorso orientato a proporre una via possibile per disporsi all’incontro con le opere di questo catalogo, e forse per cogliere il senso di una considerazione popolare riferita al fatto che, per chi ne fa esperienza, l’arte possa rendere migliori. Diffido un po’ di una tale considerazione divenuta slogan e quindi svuotata delle sue radici. Non può essere semplicemente qualcosa che ci raggiunge dall’esterno a modificarci in meglio (o in peggio), ma è come questo qualcosa lo si elabora
e integra nella propria esperienza personale. Allo stesso modo l’arte, in sé, non rende migliori ma offre la possibilità di diventarlo. Non perché ci mostra il bello del mondo, al contrario a volte ci urta con contenuti e messaggi tutt’altro che rassicuranti,
e alcune delle opere qui raccolte lo dimostrano bene, quanto piuttosto perché accompagna ad incontrare la complessità del mondo, anche di quello interno e, in questo modo, si trasforma in un potenziale volano di consapevolezza e di crescita anche nella sofferenza e nel disagio. Tutto ciò a condizione che ci sia disponibilità a mettersi in gioco e a cogliere l’occasione offerta da una simile esperienza.

È per questo che l’incontro con l’arte, con la produzione artistica, non permette semplicemente di fare una generica “bella esperienza”, di diventare (magari) più buoni, di dimenticare le cose faticose della vita, di distogliere l’attenzione da ciò che affligge. E nemmeno di aumentare, nel vettore quantitativo, il personale sapere e il bagaglio di erudizione. L’incontro con l’arte non è semplicemente una distrazione o un intrattenimento, ma spinge a prendere contatto (e consapevolezza) con dimensioni di sé che altrimenti rimarrebbero scure, non perché negative, ma perché non sviluppate, non viste né familiarizzate: parti che se ben elaborate, grazie proprio a questo contatto stabilito per il tramite dell’esperienza artistica che ne consente il contatto e l’esplorazione, possono aiutare ad affrontare una quotidianità a volte difficile da capire. L’incontro, anche quello con l’arte, ha la potenzialità di destabilizzare; ogni incontro, se vogliamo, è crisi. Tanta o poca che sia. E l’incontro – in ispecie con le opere che dialogano con gli altrove del disagio psichico – lo è ancora di più. Mi piace pensare che questo aspetto lo lascino intendere, per restare in tema pittorico, le opere di Vermeer, pittore olandese del Seicento. Nelle sue tele, raffiguranti per lo più stanze o ambienti chiusi, è facile trovare finestre e carte geografiche, riferimenti che alludono ad aperture e ad altrove. Nell’idea che l’arte sia occasione di incontro, di esplorazione e di apertura, quelle mappe e quelle finestre diventano rappresentazione allusiva dell’esperienza possibile di tutti coloro che accostano una produzione artistica. Le opere qui presentate, per restare in tema con i dipinti di Vermeer, sono infatti capaci di aprire a geografie non familiari, sconosciute, apparentemente lontane ma, in realtà, intimamente vicine a ciascuno. Risuonano in sottofondo le parole di George Bernard Shaw per il quale, cosa nota, ci si riflette in uno specchio per vedere il proprio volto così come, meno evidente da considerare ma ugualmente vero, “si usano le opere d’arte per guardare la propria anima” (Perniola, 2016, p.7), esperienza non sempre e non per tutti rassicurante e pacifica ma, tuttavia, utile per tutti allo sviluppo di sé. 

C’è una fiaba della classica raccolta di Jacob e Wilhelm Grimm (1992)
che racconta una singolare storia capace di accompagnare alla chiusura di questi appunti con una possibile risposta sulla funzione dell’arte: è la storia di uno “strano” (così recita il titolo) violinista che si avventura nel bosco perché annoiato, desideroso di nuovi incontri e di nuovi compagni, e nel bosco si mette a suonare il suo magnifico strumento. Al suono si accostano a lui, via via, diversi animali:
un lupo, una lepre, una volpe. Allo stesso modo della musica del violino eseguita dal protagonista della fiaba, “strano” come strani sembrano a volte gli artisti e gli abitanti dei luoghi di accoglienza della sofferenza psichica, le opere di questo catalogo, le opere d’arte in genere, hanno la capacità e la funzione di tirar fuori dal profondo, dallo scuro e intricato bosco della nostra interiorità (si noti il voluto evitamento della parola inconscio che può essere facilmente recuperata dal lettore sensibile ai temi psicoanalitici) dimensioni di sé non sempre familiari, non sempre rassicuranti, perfino percepite come pericolose.

Proprio perché pervasive di “ogni vitalità” significa che le “vaste zone originarie” dalle quali scaturirebbe la produzione artistica (Prinzhorn, 1991) sono potenzialmente capaci di stimolare anche la vitalità e la creatività dell’osservatore, del fruitore della rappresentazione, il quale coglierà, se lo vuole, che ci sono dimensioni che, pur se in modo rassicurante si tendono ad ascrivere a mondi altri e a realtà percepite come lontane, in realtà risiedono e abitano in ciascuno. E quel “mondo alieno” dal quale sembrano emergere le opere che si hanno dinnanzi (non a caso alienati era un altro nome col quale si indicava chi era afflitto da una malattia mentale), è invece un mondo molto più vicino di quanto si sospetti.
Il criterio pratico sul quale, in fondo, costituiamo la distinzione tra salute e malattia mentale è proprio la stranezza (Straus, 2010), esattamente come strano è definito il nostro violinista della fiaba dei Grimm. Per questo motivo, nell’immagine efficace utilizzata dallo psichiatra Erwin Straus (2010) di Befremdliche (p. 26), così come l’accento svela lo straniero che si discosta col suo linguaggio da quello abitualmente parlato, allo stesso modo cogliamo nella stranezza altrui qualcosa che lo allontana da noi e dal nostro mondo abituale (Straus, 2010). Eppure, in quella “lingua altra” che ci raggiunge dalle opere del presente catalogo decifriamo delle assonanze, delle “parole” non estranee del tutto, perfino delle familiarità. Vale la pena ascoltare gli “strani violinisti” presentati all’interno di queste pagine, perché richiamano dal profondo qualcosa che potrebbe portare messaggi importanti per la personale crescita. Occorre dirlo con franchezza, a volte “il malato […] sente più e meglio di noi” (Straus, 2010, p. 27). E questo vale anche per l’artista.

Infine, in merito a cosa serva l’arte, oltre alle altre risposte disponibili che arricchiscono il panorama del complesso dibattito in merito, propongo qui, in questa sede, una mia personale suggestione: quella che l’arte sia un’esperienza unica per stimolare, sorreggere, a volte autorizzare l’emersione di aspetti di sé altrimenti poco accessibili, silenti, messi da parte o trascurati, e consentire di familiarizzare – attraverso questi aspetti – con dimensioni dell’umano percepite come estranee, scoprendole invece come parti profonde di sé, parti capaci di diventare, se colte, stimolo e spinta alla crescita e alla consapevolezza.

Lorenzo Pezzoli

Professore responsabile del Centro competenze psicologia applicata

(DEASS-SUPSI)

Psicologo e psicoterapeuta ATP-FSP

 

 

Agliati Ruggia, M., Blendinger, P., Brambilla, A., Foletti, G. (2020).
Jean Corty. Gli anni di Mendrisio. Armando Dadò editore. 

Bedoni, G., Tosatti, B. (2000).
Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile. Mazzotti.

Bury, M. (1982). Chronic Illness as Biographical Disruption. In Sociology of Health and Illness, 4(2), 167-182.

Cardano, M. (2007). “E poi cominciai
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Grimm, J., Grimm, W. (1992). Fiabe. Einaudi.

Kris, E. (1988). Ricerche psicoanalitiche sull’arte. Piccola biblioteca Einaudi.

Lombardi, S. & Zanzi, A. (2024). Dubuffet e l’Art Brut. L’arte
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. 24 ORE cultura. 

 

Perniola, A. (2016). Mimesi o poiesi.
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Prinzhorn, H. (2011). L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali. Mimesis.

Ranchetti, M. (2005). Introduzione.
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Straus, E. (2010). Il vivente umano
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Tolstoj, L. (2010). Che cosa è l’arte. Donzelli editore.

Visita della commissione svizzera
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